
Resilienza: abbellire le cicatrici
Chi si occupa di educazione avrà sicuramente masticato alcuni termini specifici che si ritrovano spesso nel discorso pedagogico: si parla di empatia, si parla di apprendimento, si parla di emotività, si parla anche di RESILIENZA.
Deve essere chiarito subito che il termine resilienza non indica semplicemente il superamento di un evento traumatico quanto più la capacità dell’individuo di trasformare quell’evento in un’opportunità di crescita personale. Definire esattamente in cosa consista un evento traumatico non è affatto banale, ciò che però possiamo sicuramente osservare è che l’incidenza del fenomeno è in aumento. Nel panorama moderno sentiamo sempre più spesso parlare di violenza, abusi, terrorismo o migrazioni (solo per citarne alcuni).
Perché allora parlare di resilienza da un punto di vista pedagogico?
Parlare di resilienza da un punto di vista pedagogico significa puntare l’attenzione sulla dimensione progettuale che caratterizza il processo resiliente e che chiama in causa proprio gli interventi educativi. Questo è importante perché la resilienza può e deve essere costruita insieme.
Come promuovere resilienza?
La resilienza non nasce da una teoria bensì nasce dalle biografie delle persone, dalle storie delle comunità e degli ambienti. Si tratta di storie in continua evoluzione e trasformazione che possono offrire terreno fertile di riflessione attraverso una dimensione che viene spesso sottovalutata: la narrazione. Possiamo quindi parlare di resilienza come un processo situato nelle pratiche educative quotidiane e diffuse. Pratiche che promuovono competenze trasversali come quelle relazionali, di lettura e gestione emotiva, di conoscenza del proprio sé.
Promuovere resilienza attraverso le pratiche educative è possibile solo se noi, come professionisti dell’educazione, in prima persona ci siamo ri-scoperti resilienti. Scoprirsi resilienti significa essere riusciti ad esplorare i propri limiti, sostando in essi.
L’obiettivo è pensare alla resilienza come ad un processo che sviluppa nuove risorse e consente di dare un senso alla fragilità umana. Non è da confondere con la rimozione in ambito terapeutico. Il soggetto resiliente non rimuove o resiste al trauma. Al contrario ne conserva la memoria e da questa costruisce una narrazione del proprio sé promuovendo una vera e propria metamorfosi della propria storia.
Mai come in questo preciso contesto storico probabilmente dovremmo andare alla ricerca dei nostri “mentori della resilienza“. Non possiamo neanche più utilizzare la scusa della resilienza per giustificare determinate scelte politiche ed economiche che stanno investendo e travolgendo il nostro paese.
Chiudiamo le scuole tanto i ragazzi sono resilienti e riusciranno a cavarsela
Niente di più illusorio e pericoloso poteva essere detto. Questa capacità di trasformare in risorsa un evento traumatico deve essere assolutamente costruita attraverso una relazione che sia autentica, funzionale e basata sulla narrazione. Il processo resiliente non emerge sempre autonomamente ed è proprio questo che giustifica la necessità di una relazione.
Rompere delicati equilibri illudendoci che la resilienza verrà in nostro soccorso è una risposta del tutto antipedagogica e controproducente.
Per chi avesse voglia di approfondire l’argomento, consiglio la lettura di questo testo: “Come canne di bambù” di P. Garista, scaricabile anche per Kindle.
Condivido una citazione tratta proprio da questo testo:
“Tutor della resilienza non è quindi colui capace di ricucire e trovare una soluzione, ma chi ha dato luogo alla creazione di contesti in cui poter fare una scelta e diventare protagonista della propria storia. Non si tratta dunque di mettere semplicemente un collante a ciò che si rompe. E’ la strategia di personalizzare e abbellire le crepe e le cicatrici, di farle diventare cicatrici preziose, è colui che stimola e accende la scintilla della resilienza”.
Shake your mind
Alessia

Meditazione per trasformare la RABBIA
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