
La mia danza…la nostra danza!
Mi è stato chiesto di provare a scrivere cosa sia per me la danzaterapia e io mi sono emozionata, ma poi ho esitato, ho fatto passare mesi, ho tentato di coinvolgere in questa scrittura compagne di viaggio, che hanno con me danzato, ho provato a scrivere, ho chiuso il file e l’ho riaperto dopo mesi.
Perché questa fatica nonostante l’esperienza della danzaterapia sia per me così importante e appassionante?
Forse proprio per questo; forse perché – abituata io a lavorare con libri, articoli e pc e, poi, ad usare il corpo nei momenti di pausa – non sono ancora riuscita a conciliare come vorrei due anime: quella razionale, di pensiero critico e quella spirituale ed emotiva, che pure con il pensiero critico ha a che fare. E allora questa sfida di scrittura e inevitabile rielaborazione si fa ancora più importante e necessaria: provare a comunicare il vissuto della danzaterapia, significa per me provare a fare ordine, a razionalizzarlo e a rendere condivisibile un’esperienza intensa fatta di ritmo (interno ed esterno), musica e anche condivisione.
E quindi cos’è per me la danzaterapia?
Forse per provare a rispondere a questa domanda è necessario ripercorrere la mia, seppur breve, esperienza in questo campo.
Dico breve perché ho scoperto da grande che mi piaceva danzare. Non sono infatti una ballerina, non ho mai studiato danza e non ho mai avuto come obiettivo – fino ad ora – il tentare di conciliare una “passione di bambina” con la mia professione nel campo del sociale. Tuttavia ho sempre danzato balli popolari, da strada; in modo particolare ho sempre danzato la pizzica, nelle piazze del mio paese natale, il Salento. Il saltare in piazza al ritmo dei tamburelli aveva per me una funzione catartica e dopo un anno di fatica nella Milano frenetica, danzare mi diventava necessario: era necessario saltare e sentirmi nuovamente viva, sudare ma sentirmi aderente con il terreno, con il cielo e con me stessa. Il gruppo attorno – chi danzava con me e come me, chi suonava, chi guardava – diventava centrale e dava vita a un’alleanza e una sintonia magiche, inspiegabili a parole. Io, che ho sempre sofferto di bassa autostima, in quelle occasioni mi sentivo bella, attraente ed attrattiva; mi liberavo di qualcosa che non serviva e mi riempivo di vita e poesia, di concretezza.
Sentivo il mio corpo, la mia energia, la mia forza e quella degli e delle altre intorno a me.
Ho mentito a me stessa per anni. Per anni ho tenuto divise queste due anime (mentale e corporea) , ma tentando comunque di trovare uno spazio extra-lavoro/extra-studio che mi permettesse di scaricare le tensioni; per anni ho copiato la sportività atletica di mia sorella più grande; per anni dunque ho animato le panchine e gli spogliatoi di squadre di pallavolo, per le quali le mie scarse capacità mi impedivano realmente di giocare. Ero tuttavia una buona mascotte, ma mi sembrava di vivere la vita di qualcun altro. Percorsi d’introspezione e riflessione su di me mi hanno aiutata a comprenderlo e a tentare di abbandonare ciò che non mi apparteneva. Ho capito che dall’ambito sportivo dovevo spostarmi a quello creativo e così ho provato corsi di improvvisazione teatrale, di pittura… ma qualcosa non funzionava, non riuscivo a sentirmi appagata, piena, bella, competente… così come accadeva quando in piazza danzavo la pizzica senza freni, né troppe regole.

Poi all’improvviso, quasi per caso, ho ripreso contatto con il mio corpo, che, muovendosi agli stimoli musicali e osservando i movimenti altrui, danzava e si riconciliava con la sua anima. Ho incontrato sguardi, energie e sintonie immediate. In queste esperienze è facile che si venga a comunicare, quasi spontaneamente, con gli occhi, con le mani, con la pelle che pure non sempre tocca quella degli altri e delle altre; è facile che subito si intuisca con chi c’è un feeling, con chi si starebbe bene e con chi invece si farebbe – probabilmente anche fuori dal contesto della danza, nella vita di tutti i giorni – più fatica. È difficile spiegare questa magia a chi non l’ha mai provata. È un’emozione (e uno stupore ogni volta) che sempre si può sperimentare in un’esperienza corporea e che lascia intuire quanti fronzoli, maschere e barriere, in generale, tendiamo a mettere nell’incontro (non sempre autentico) con l’altro.
Se volete capire se con qualcuno starete bene per tutta la vita, non parlate, ma danzate con lui/con lei.
Forse è un po’ azzardata come frase: i pensieri contano, sicuramente, ma i pensieri trovano casa nei corpi e il corpo facilita la relazione.
Dopo una prima esperienza non prevista nella danzaterapia, ho deciso che questo era quello che avrei voluto approfondire. Desideravo un contesto del genere in cui imparare a essere me stessa; lo desideravo con tutto il cuore, ne avevo bisogno, ed è arrivato. Da cinque anni ormai ho trovato un gruppo con il quale danzo: è la mia tana, il mio spazio di lavoro su di me, che diventa inevitabilmente lavoro con gli altri; è lo spazio in cui è possibile lasciare andare preoccupazioni, tensioni, paure, resistenze, trasformandole creativamente – grazie anche al sostegno e all’aiuto del gruppo – in nuove possibilità di esserci ed esprimersi; nuove possibilità di esistenza ed espressione in quello spazio protetto ma poi, più in generale, nel mondo. È questo quindi uno spazio appunto protetto in cui è possibile apprendere di sé e del mondo; sperimentare e mettere alla prova sé e il mondo, per poi tornare alla vita con più strumenti e maggiori competenze per tentare di affrontare (con altri e altre) la sua complessità quotidiana.

Chi è pratico del mondo formativo e dell’educazione avrà già individuato le connessioni: quello della danzaterapia, come quello educativo in fondo, è uno spazio formativo, relazionale, identitario e di possibile trasformazione creativa dell’esistente. Sono queste connessioni, intuite e forse mai esplicitate come adesso, che mi hanno portata a scegliere, da un anno a questa parte, di approfondire questo linguaggio e di provare a formarmi in questa disciplina, in una scuola a indirizzo espressivo-relazionale. Il desiderio, con questa formazione, è quello di riuscire a progettare e a predisporre in futuro esperienze, appunto formative e di trasformazione creativa (personale, territoriale e sociale), proprio attraverso questo linguaggio ed esperienza corporea, intima e allo stesso tempo relazionale. Ciò credo risulti fondamentale, soprattutto in un tempo come quello attuale, in una società come quella occidentale, in cui le professioni sono sempre più intellettuali, individuali e sedentarie; in questa società in cui si è perso il contatto con il corpo, con la terra, con gli altri, con la danza.

La danza in sé è un’esperienza terapeutica, catartica (come per me è sempre stata la pizzica); è un’esperienza che in tutti i popoli ha avuto una funzione psico-sociale importante. È un’esperienza, così intesa, ancora viva nei popoli più poveri a contatto con la terra. E’ così che nel mondo occidentale e “sviluppato”, accanto a medici, dottori, psicologi, psichiatri, la danza si fa danazaterapia, un’esperienza di festa, gioco e aggregazione in cui il suono, il ritmo e la musica divengono esperienza educativa di coesione sociale. Ed è così che, come educatrice e futura danzaterapista, intuisco che il mio lavoro dovrà orientarsi all’“autodistruzione”, puntando idealmente alla mia (in quanto professionista) inutilità, al far sì che la dimensione educativa e l’esperienza della danza libera-collettiva-relazionale-catartica diventino esperienze di vita quotidiana, diffuse, e per tutti, senza la necessità dunque di professionisti e professioniste dell’educazione e della creatività espressiva.
Concluderei l’articolo, ringraziandovi e facendo mia la risposta che la mia amica Clara dà sempre a chi le chiede “che cosa danzi”. A questa domanda lei risponde:
“io danzo la mia danza”
E dunque vi saluto augurandovi di trovare la vostra danza, che vi permetta di scoprire chi voi siate e come vi stiate muovendo nel mondo con gli altri; la vostra danza, che vi permetta di esprimervi, creando con altri e altre, nuove danze e alleanze collettive. Danziamo quindi tutti e tutte la nostra danza, personale e sociale: una danza che sia anche scomposta, ma emozionata, liberatoria e di connessione, che permetta così di creare ponti, piuttosto che muri e divisioni, incrociando sguardi, espressioni, mani e storie.
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Sono Marialisa, per gli amici Mari o Mary a seconda dei gusti e delle inclinazioni, più o meno internazionali, di ciascuno. Sono un’educatrice e un’assegnista di ricerca dell’università degli studi di Milano-Bicocca. Ho un’indole pigra (dormirei tutto il giorno), ma per contrastarla mi rifiuto di avere tempo libero. Amo le danze popolari, i loro ritmi ed energie pulsanti che mi permettono di incontrare me e gli altri. Amo incontrare e conoscere gente “vecchia” e “nuova”, le loro storie e discutere e apprendere da loro rispetto alle vicende del mondo che ci circonda.

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