
Il signor Bernard
‘‘… poi andavamo in classe: con il signor Bernard le lezioni erano sempre interessanti per la semplice ragione che lui amava appassionatamente il proprio mestiere … il suo metodo consisteva nel non concedere nulla in fatto di disciplina, ma di rendere vivo e divertente il suo insegnamento … egli appagava una sete ancor più essenziale per il ragazzo che per l’adulto, la sete della scoperta.(…). Nella sua classe , per la prima volta in vita loro, i ragazzi si sentivano di esistere e di essere oggetto della più alta considerazione, li si giudicava degni di scoprire il mondo. E il maestro non si occupava solo di insegnare ciò per cui era pagato, ma li accoglieva con semplicità nella sua vita personale, la viveva con loro, raccontava la propria storia e quella di altri ragazzi che aveva conosciuto … ’’
da “Il primo maestro”, Marcel Camus
Ho letto queste parole quando insegnavo da pochi anni e, subito, ho riconosciuto nel signor Bernard il mio modello di insegnante.
Mi sono rivista studentessa, ho pensato ai miei insegnanti e subito mi sono venuti in mente i volti, i gesti, la voce di quelli che mi incantavano perché, davvero, mi facevano sentire “oggetto della più alta considerazione”.
Io credo fermamente che ogni insegnante, per saper far bene (o, piuttosto, il meglio possibile) il suo lavoro, debba ricordare, o meglio “rinnovare” quello che accadeva quando si trovava dall’altra parte della cattedra.

“Ri-nnovare” nel senso che attribuisce Dante a questa parola quando, nel Canto I dell’Inferno, scrive che il pensiero di ciò che ha vissuto, quando è entrato nella selva oscura, “rinnova”, cioè rende viva proprio come in quel preciso momento, la paura che ha provato.
Avere ben impressi nella memoria i pensieri, gli stati d’animo, le emozioni sperimentati da studente, permette ad un insegnante di entrare in empatia con i suoi allievi: io allora, come i miei alunni oggi, avevo la “sete della scoperta”, desideravo che qualcuno mi facesse “sentir degna di scoprire il mondo”, non tolleravo le ingiustizie e mi sentivo profondamente offesa se qualcuno mi trattava come se fossi un numero. Non riuscivo a sopportare certe frasi quasi sprezzanti dette con noncuranza, mentre ammiravo incondizionatamente quegli insegnanti che ci dimostravano con i fatti che, per loro, ognuno di noi era unico e prezioso.
Oggi, da insegnante, sono onorata di percorrere con i miei alunni quel pezzo di strada che, me lo auguro con tutta me stessa, sarà uno dei trampolini di lancio verso gli uomini e le donne che diventeranno.
Quando entro in classe, per tutta la durata della lezione cerco di tenere spalancati gli occhi ed il cuore su ognuno dei ragazzi e delle ragazze che mi trovo davanti e, sempre, alla fine dell’ora, scopro di aver imparato tanto anch’io.
Proprio come il signor Bernard, vorrei raccontare la mia storia attraverso quella di due incredibili ragazzi che ho incontrato nel mio cammino da insegnante: Emanuela e Nicola.

Emanuela era una studentessa sempre attenta e totalmente immersa in quello che le veniva presentato, ma con una marcata difficoltà nel campo della logica. Quindi, in grammatica faceva molta, ma molta fatica.
Seguiva parola per parola quello che dicevo e alla fine, immancabilmente, diceva, con disarmante onestà: “Prof, non ho capito”.
Non bisogna essere dei geni per sapere che, se io le avessi spiegato ciò che non aveva capito nello stesso, identico modo, avrebbe continuato a non capire.
Il riconoscimento dei verbi passivi costituiva per lei una montagna insormontabile, così trascorrevo interi pomeriggi a sperimentare metodi efficaci che permettessero ad Emanuela di far suo l’argomento. Il giorno seguente, trionfante, mi presentavo in classe con il mio nuovo modello di spiegazione e lei, dopo aver ascoltato con la massima attenzione, arrivava alla solita conclusione.
Si era creata una sorta di “gara” alla quale partecipava attivamente tutta la classe: nessuno giudicava, ma tutti davano il loro contributo, spiegando ad Emanuela COME quel determinato contenuto avesse preso forma e significato nella loro mente, ma la mente di Emanuela funzionava diversamente dalla loro….
Lei, però, era decisa a non mollare.
Io ero estasiata da quella ragazza che non si poneva neppure il problema di essere considerata “tonta”: voleva capire e tutti ammiravano la sua determinazione.
Alla fine, tanta costanza venne premiata : trovai la chiave d’accesso ed Emanuela imparò a riconoscere i verbi passivi che, all’interno della lingua italiana, non sono certo un argomento di importanza secondaria.
Ancora oggi, dopo tanti anni, quando spiego i verbi passivi, illustro i diversi metodi di riconoscimento che i ragazzi di quella classe mettevano in atto e, da ultimo, presento quello che ha consentito di vincere la “battaglia”: i miei alunni lo conoscono come “il metodo Emanuela”.

Nicola era uno studente con molte difficoltà che, però, diversamente da quello che accadeva fino a qualche anno prima, avevano un nome: dislessia.
La dislessia gli era stata riconosciuta alle elementari, ma, per la sua maestra, questa parola era insignificante o forse troppo impegnativa per farci i conti seriamente.
Pertanto, lui arrancava di fronte a qualsiasi proposta didattica. A poco a poco insieme, con tenacia, trovammo il modo per modulare le richieste in base alle sue modalità di comprensione e Nicola rifiorì: fu allora che, un giorno, mi chiese di poter raccontare a me e ai suoi compagni la sua storia di studente delle elementari.
Ci raccontò che la sua maestra gli aveva detto che imparare è come avere davanti un treno: devi stare attento al momento in cui si ferma alla stazione perché, altrimenti, non riesci a salire e, quindi, non impari nulla.
A questo punto si fermò un attimo e concluse: “Il problema era che, per me, questo treno non si fermava mai!”
Queste parole mi colpirono tantissimo: la sua estrema intelligenza, unita alla sua sensibilità, avevano permesso a lui, dislessico dichiarato, di trovare le parole giuste per dare voce alla sua sofferenza. Usando le parole di Nicola, credo fermamente che il mio compito di insegnante sia fare in modo, a qualunque costo, che per ogni studente il treno si fermi. Se così non accade, è meglio cambiare mestiere.
Alla fine della terza media Nicola mi regalò un libro dal titolo emblematico: “Sopravvivere con i lupi”.
C’era una dedica bellissima che, tra l’altro, recitava :“…le dono questo libro come segno del mio passaggio”.

Grazie ad Emanuela, a Nicola ed ad ognuno degli alunni che ho avuto, ho imparato che insegnare è molto diverso da “addestrare”, implica un compito che va ben oltre quello di trasmettere nozioni: è educare, innanzitutto, nel senso indicato dal papa Benedetto XVI nel messaggio per la celebrazione della XLV giornata della pace:
“L’educazione è l’avventura più affascinante e difficile della vita. Educare – dal latino educere – significa condurre fuori da se stessi per introdurre alla realtà, verso una pienezza che fa crescere la persona. Tale processo si nutre dell’incontro di due libertà, quella dell’adulto e quella del giovane. Esso richiede la responsabilità del discepolo, che deve essere aperto a lasciarsi guidare alla conoscenza della realtà, e quella dell’educatore, che deve essere disposto a donare se stesso. Per questo sono più che mai necessari autentici testimoni, e non meri dispensatori di regole e di informazioni; testimoni che sappiano vedere più lontano degli altri, perché la loro vita abbraccia spazi più ampi. Il testimone è colui che vive per primo il cammino che propone.”
Shake your mind
Paola
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Sono Paola, laureata in filosofia presso l’Università Cattolica con una tesi in storia del giornalismo. Insegno appassionatamente da 34 anni. Amo fare la mamma e la moglie. Sfrutto il mio tempo libero per dedicarmi al mio sport preferito: sciare!

Colorito..ad ognuno il suo!

PAESE CHE VAI...CASA CHE TROVI!
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