
La favola che riscatta la balena bianca e invita a riflettere sul rispetto della natura

“Mi immersi in un mare sconosciuto, il mare dell’odio. Dal fondo emisi con la testa il più potente degli schiocchi, che fece tremare l’acqua e col suo rombo stordì i pesci, i molluschi e i granchi, qualunque cosa vivesse in acqua, e poi mi lanciai contro i balenieri. (…) E con nove arpioni conficcati nel dorso guadagnai il mare aperto, in cerca di altre baleniere, perché adesso ero io a inseguirle, io, il grande capodoglio del colore della luna che gli uomini tremando di paura chiamavano Mocha Dick. [1]
Io, la maledizione che li avrebbe perseguitati senza tregua.
Io, la forza di chi non ha più nulla da perdere.
Io. L’implacabile giustizia del mare.”
Ecco a voi la voce della famosa balena bianca, tanto bramata e temuta nel celebre (e bellissimo) romanzo di Herman Melville: Moby Dick.

Se cercherete il passaggio sopra citato nell’opera di Melville non lo troverete, perché benché il nome assegnato alla balena bianca dia il titolo al romanzo, leggendolo vi accorgerete che il ruolo principale in Moby Dick se lo aggiudica il Capitano Achab. Si narra la sua storia, la sua inquietudine, la sua forza e la sua fragilità, il suo puritanesimo e i suoi sensi di colpa. Moby Dick è certo la più grande ossessione del Capitano Achab ed è un personaggio importante per lo svolgersi della vicenda ma, in essa, riveste comunque un ruolo secondario.
Insomma Moby Dick non è la protagonista di Moby Dick!
A correre al riparo a questa ingiustizia perpetrata nei confronti del famoso capodoglio del colore della luna, ci ha pensato un altro grande autore al servizio di grandi e piccini: Luis Sepulveda.
La citazione che apre questo mio articolo è tratta proprio dall’ultima favola dello scrittore cileno: Storia di una balena bianca raccontata da lei stessa.

Come si evince chiaramente dal titolo, nell’opera di Sepulveda viene finalmente riconosciuta a Mocha Dick l’opportunità di raccontarci la sua storia, e allora scopriamo che il mostro infernale descritto nell’opera di Melville non dovrebbe essere lei, la balena bianca.
Vi riporto alcuni stralci di questa bella favola che ci daranno spunti su cui riflettere:

“Molto lontano dalla costa, in mare aperto, vidi una grande nave degli uomini solcare le acque. (…) Mi immersi, avanzai e riemersi fino a trovarmi vicino alla nave, sottovento, per accompagnarli nella traversata. Mi videro, sentii le loro grida di stupore, una balena bianca!, ma un fischio stridente li allontanò dal parapetto e tornarono al lavoro. (…)
Malgrado l’indifferenza dei marinai, decisi di accompagnare la nave ancora per un tratto e allora, riemergendo per la quarta volta, vidi un’altra imbarcazione che seguiva la stessa rotta. Era anch’essa una nave superba, le vele spiegate la facevano navigare più veloce della prima, che ben presto raggiunse. Mi domandai come sarebbe stato l’incontro fra quegli uomini in mare. Quando noi balene ci raduniamo, per l’accoppiamento o per prenderci cura delle femmine che partoriscono e dei piccoli che nascono, nuotiamo in cerchio, saltiamo, ci lasciamo cadere sul dorso e ci lanciamo sul pelo dell’acqua battendo le code. La gioia d’incontrarci si esprime in sbuffi d’aria espulsi dai polmoni, capriole, canti, sibili e schiocchi. Che cosa avrebbero fatto gli uomini per esprimere la gioia d’incontrarsi?
Quando la nave più veloce raggiunse la prima, un rumore forte come le proteste dei nuvoloni scuri durante le burrasche, più spaventoso di quello del fulmine che lacera l’aria e si schianta sugli scogli e sulle onde, fu il saluto senza ombra di gioia che gli uomini si scambiarono. Sulle murate delle due imbarcazioni apparvero bocche nere che cominciarono a sputare fuoco producendo ogni volta il terrificante rumore. Subito la prima nave s’incendiò lanciando attorno schegge infuocate che cadevano in mare, gli alberi che reggevano le vele cedettero e crollarono fra le urla di odio, paura e disperazione degli uomini che si gettavano fuori bordo. La prima nave, semidistrutta, non tardò ad affondare, e la seconda si allontanò fra le grida esaltate dei marinai che festeggiavano la vittoria. (…)
Mi sembrò molto strano il comportamento degli uomini in questo loro incontro in mare. La minuscola sardina non attacca un’altra sardina, la lenta tartaruga non attacca un ‘altra tartaruga, il vorace pescecane non attacca un altro pescecane. A quanto pare gli uomini sono l’unica specie che attacca i propri simili, e non mi piacque questa cosa che imparai da loro.”

Questa è la prima lezione che la natura ci insegna, nessun animale attacca un suo simile per avidità di potere, ancor peggio per capriccio, e certo non lo fa servendosi vigliaccamente delle armi. Ciò che in natura spinge un animale ad attaccarne un altro è semplicemente la necessità di sopravvivenza.

“Avevano nuotato vicinissimo alla superficie. Uscivano a respirare e tornavano a immergersi, sempre così, finché non erano arrivati davanti a una costa che all’anziano capodoglio era sembrata strana ma bella, perché evidentemente le stelle avevano deciso di offrire agli uomini la loro scintillante compagnia. Allora la balenottera azzurra gli aveva detto che non erano le stelle a brillare, ma delle cose che gli uomini chiamavano lampade, e che dentro le lampade bruciava una parte di noi balene. Non ci davano la caccia per cibarsi delle nostre carni, ma per l’olio dei nostri intestini, che ardeva illuminando le loro case. Non ci ammazzavano per paura della nostra specie; lo facevano perché gli uomini temono il buio e noi balene possediamo la luce che li libera dalle tenebre.”
Il passaggio appena citato conferma quanto l’uomo, a differenza di ogni altro essere vivente in natura, non si faccia alcuno scrupolo a uccidere per soddisfare un mero capriccio, in questo caso specifico: “Voglio la luce anche quando la natura spegne la sua per riposarsi, e non m’importa nulla se per ottenere quello che voglio io, sacrifico la vita di altre specie che con me abitano il Pianeta”.
In questa chiave il buio e le tenebre assumono un significato molto più profondo, interpretano la metafora dell’animo umano: avido, cattivo, senza luce e speranza, ma soprattutto privo di rispetto e gratitudine nei confronti della natura che lo ospita.

“Gli uomini: così piccoli eppure così implacabili come nemici, pensai, ma nell’occhio dell’anziano capodoglio vidi che sulla costa, oltre l’Isola Mocha, c’erano uomini diversi, chiamati lafkenche o Gente del Mare.
Loro prendono dalla riva il necessario per vivere e ringraziano la generosità del mare celebrando un rito antico. Una volta raccolti gli alimenti, alcuni lafkenche vanno nel vicino bosco, che chiamano lemu, e chiedono il permesso di portar via tronchi e rami che poi ammucchiano sulla spiaggia per accendere falò che punteggiano di faville l’acqua inquieta. Allora noi balene ci avviciniamo, e anche i delfini, e salutiamo la Gente del Mare con salti, a cui loro rispondono con grida allegre.”
Come saprete se ci seguite, lo spirito di Bio-Shake è trasmettere messaggi positivi, quindi ci tenevo a chiudere l’articolo condividendo con voi questo piccolo stralcio della favola di Sepulveda, che riaccende in noi la speranza e ci insegna che le tenebre non sono una prigione, l’uomo può liberarsene, se cambia il suo atteggiamento nei confronti della natura e della vita!
E allora…
– Shake your Mind-
Paola
P.S. Con la “scusa” di dover scrivere l’articolo per il blog, ho comprato questo bel libricino e l’ho letto tutto d’un fiato in poche ore. Che siate grandi o piccini ve la consiglio come lettura estiva, non vi impegnerà tanto e come ogni altro libro, vi arricchirà!
P.S. 2 Io vi consiglierei anche la lettura di Moby Dick, sebbene sia un po’ più impegnativa ma, a mio avviso, merita decisamente!
Buone vacanze in lettura!
[1] Mocha è il nome di una piccola isola cilena situata ad ovest della costa della provincia di Aruaco, nell’Oceano Pacifico. Nelle acque vicine all’isola di Mocha, la balena bianca venne avvistata per la prima volta dai balenieri e per questa ragione, probabilmente, la chiamarono Mocha Dick.

Abitare il Pianeta, in che modo?

Io diverso...diverso da chi?
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